Angela Azzaro/Liberazione

Ce la sto mettendo tutta. Il mio impegno di cineasta è di raccontare le realtà estreme che però riguardano chiunque. Il fatto che ci siano milioni di disoccupati, che il lavoro stia cambiando, è un problema drammatico che tocca, deve toccare, ognuno di noi». Il regista Daniele Segre non cede le armi del cinema al pensiero dominante. Continua a lottare, a credere nel cambiamento, attraverso una comunicazione che si faccia interprete dei bisogni e dei desideri della società.
Con la sua cinepresa, sempre mobile e attenta a captare gli sguardi dei soggetti spesso dimenticati dalla cinematografia più in voga, è arrivato anche alle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni. E, come suo solito, si è mischiato con i lavoratori, è diventato uno di loro per cogliere meglio le loro emozioni, i loro pensieri, andando oltre le apparenze. «Il titolo – spiega il regista, giunto all'ultima giornata di riprese – non lo ho ancora deciso. Ma sono molto affascinato da una frase che gli operai hanno scritto sul muro: “Un solo grido: lavoro”». Un grido che ha ogni diritto di levarsi alto, perché, dopo gli accordi sindacali, le acciaierie sono state smantellate, e i dipendenti sono in attesa di una nuova occupazione. «Andare lì – spiega Segre – vuole essere non solo una testimonianza di ciò che già è stato, ma anche una verifica degli accordi stessi, affinché essi vengano veramente rispettati là dove parlano di riqualificazione e di ricollocazione. Personalmente conservo dei dubbi, che per il momento tengo per me, ma che nel film emergono tutti». A raccontarli, insieme alla vera e propria disperazione, sono coloro che per anni hanno lavorato alla Falck, hanno vissuto la propria vita a contatto con la fabbrica. Oggi niente più certezze, mentre il futuro sembra non prevedere un posto per loro. «La situazione è particolarmente complessa. Se i giovani hanno ancora delle possibilità di trovare un altro lavoro, per gli uomini che hanno superato i quarant'anni e che non sono iperqualificati è molto più difficile. Inoltre, passando intere giornate senza far niente, sentendosi inutili, emergono dei problemi psicologici fortissimi. E' come se si fossero improvvisamente svegliati da un lungo sonno, e avessero scoperto che il mondo sta cambiando, senza che loro ne facciano più parte. Non li dobbiamo lasciare soli. Deve esserci uno sforzo collettivo affinchè riescano a concludere il ciclo produttivo e ad avere una pensione dignitosa. E' questa la ragione principale per cui mi trovo qui: non è ammissibile che persone che hanno trent'anni di lavoro durissimo alle spalle vengano lasciate in balia del destino. Il lavoro è troppo importante non solo per il benessere economico, ma anche per sentirsi attori della propria esistenza». A determinare però la sorte di così tanti lavoratori è ora più che mai la legge del mercato, che lasciata libera domina su tutto e tutti. A questo potere pervasivo Segre oppone il suo linguaggio, in cui elementi reali ed elementi di finzione si mescolano per fare presa sull'immaginario collettivo. «Ciò che mi interessa principalmente è di riuscire a comunicare con il grande pubblico, trasmettergli il senso di questa sofferenza, chiamandolo ad un'assunzione di responsabilità. Se gli italiani riusciranno ad ascoltare queste parole, se verranno colpiti da queste immagini, il mio scopo di regista è raggiunto».